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Il
grosso gabbiano si alzò in volo non appena l’operaio mise in moto
la ruspa e, pigramente, andò a posarsi su di un palo poco distante.
Forse anche quel vecchio pennuto, come Giambattista, intendeva
assistere in prima persona alla seconda trasformazione che in pochi
anni stava subendo l’angolo più caratteristico del Canaletto, la
Marina. L’anziano Giambattista sapeva che avrebbe perduto uno dei
pochi luoghi del suo quartiere ancora in possesso di una forte
potenza evocativa, un po’ com’era successo, nel 1969, con la
demolizione della chiesetta di Corso Nazionale o, anni dopo, con
l’espansione del parco della Maggiolina sopra ai campi coltivati.
Restavano, immutati testimoni degli anni della sua gioventù, solo
orti nascosti dietro a vecchie case e qualche metro di Dorgia
fieramente limpida. Inutili o ingombranti agli occhi degli altri,
resistevano pochi edifici ormai diroccati, la cui demolizione
imminente gli provocava una contrarietà che, obiettivamente,
riconosceva irrazionale. Come ad una cerimonia funebre, osservava in
silenzio quella terra che veniva rimossa per scavare le fondamenta
di un nuovo edificio e che era servita anni prima per espandere la
linea di costa a favore di strutture portuali. Fu necessario
sottrarre spazio al mare, demolire vecchi pontili e capanne di
muscolai, che furono poi ricostruiti un centinaio di metri più
avanti. I nuovi interventi avrebbero adesso concesso al porto
l’intera area, con l’interramento di un’ampia porzione di
golfo davanti al quartiere e lo smantellamento definitivo dei
pontili e di tutto ciò che, in qualche modo, ricordava il passato.
Il braccio della ruspa scavava in profondità e scaricava di lato,
portando alla luce i fanghi del vecchio fondale marino ed il
materiale utilizzato per l’interramento al quale era stato
sottoposto anni addietro.
Qualcosa, in quella terra che andava accumulandosi dietro al mezzo
meccanico, attirò l’attenzione dell’anziano signore. Si chinò,
e raccolse un anello, profondamente alterato da quella che era
sicuramente stata una decennale permanenza prima sott’acqua e poi
sottoterra.
Il grosso gabbiano si alzò in volo, stavolta verso un punto
lontano, nello stesso momento in cui Giambattista riconobbe
l’ametista incastonata, sentendosi trafiggere il cuore da
un’emozione paralizzante. Il rumore della ruspa svanì, come
svanirono gli interramenti e le grosse gru del porto. Nella sua
mente, con forza, tornò uno sconvolgente pomeriggio
dell’immediato dopoguerra.
“Oggi
non ho voglia, andate voi”, erano sei giorni di fila che declinava
così l’invito rivoltogli dagli amici per andare a pescare
anguille nella Dorgia. Ed erano sei giorni che aveva conosciuto
Maria: lo avevano conquistato il suo viso aperto e sempre
sorridente, gli occhi vivi e scuri, la leggerezza e l’eleganza nel
muoversi, la sua voce calma e dolce, l’interesse sincero che
mostrava verso ogni cosa che lui le raccontasse. Certo, a tredici
anni l’amore è solo una parola piena di promesse e di mistero,
ma, con molta sorpresa, si rendeva conto di preferire ai giochi con
gli amici le poche frasi che riusciva a scambiare con quella
ragazzina. Poche, perché il burbero e panciuto padre della
fanciulla esercitava una vigilanza spietata e, in quelle giornate di
luglio trascorse alla Marina, non la perdeva mai di vista. La madre,
più comprensiva, forse lo aveva preso in simpatia da quando,
tuffandosi tempestivamente dal pontile, aveva recuperato
prodigiosamente l’anello di ametista, tanto caro a Maria, che era
sfuggito di mano alla ragazza finendo disgraziatamente in mare. Non era stato
difficile per lui, abituato a muoversi nell’acqua con una
naturalezza che appariva affascinante e irraggiungibile agli occhi
di quella famiglia di “campagnoli”. D’altra parte, loro, che
abitavano a Migliarina, al mare davano del lei e Maria viveva quelle
giornate estive con l’intensità e la partecipazione che si
attribuiscono a tutto ciò che non è abituale: i cestini col pranzo
al sacco da preparare la mattina, l’allegra camminata attraverso i
campi per arrivare al Canaletto, la curiosità per il lavoro della
gente di mare, che curava le barche, gli arnesi per la pesca ed i
vivai dei muscoli antistanti i pontili. E poi, quando le ombre
iniziavano ad allungarsi, il ritorno, col sale sulla pelle e,
spesso, col rossore delle scottature, mentre i contadini
annaffiavano i campi e chiudevano i pollai nella pace delle serate
estive. Gli uccelli animavano gli alberi con le loro voci variopinte
e le rondini tracciavano nell’aria traiettorie imprevedibili, in
lontananza echeggiava l’abbaiare di un cane: su questo tappeto di
suoni ed immagini si adagiava il fresco ricordo di un gran giorno
che finiva e germogliava la trepidante attesa di altri, più belli,
che sarebbero venuti.
Per Giambà (così lo chiamavano tutti), invece, non c’era nulla
di rituale o di straordinario. Il mare era un vicino di casa del
quale sentiva sempre la presenza e al quale non mancava giorno che
facesse visita, in ogni stagione. Non era solo il posto per i bagni
o per il sole; il mare era un amico cui confidare segreti da uno
scoglio isolato, era un vecchio zio del quale sapeva riconoscere
l’umore per capire quando era in vena di scherzi e quando invece,
irato e violento, andava lasciato stare. Chiamava per nome tutti i
muscolai che lavoravano ai vivai, spesso saliva sui loro pesanti
barconi grigi, ed era amico dei numerosi gatti della zona,
assillanti, quando non dormivano, nel pretendere un’offerta da
parte dei pescatori. Non era raro che passasse lunghe ore di grigi
pomeriggi invernali chiuso nella baracca di legno sul pontile, a
sistemare palamiti, reti e nasse mentre la pioggia, scrosciante sul
tetto, duettava dolcemente con le onde leggere. Momenti intrisi di
un forte fascino, certamente più esclusivo di quello della stagione
estiva, quando l’ambiente si animava di nuove persone, molte delle
quali provenienti da altri quartieri, che utilizzavano i pontili e
la minuscola spiaggia per prendere il sole. Da quei pontili i
ragazzi si tuffavano, nuotavano in quelle acque quasi sempre calme e
limpide, molti si cimentavano con perizia sulle barche a vela. I
bambini sguazzavano vicino alla riva o si rincorrevano schizzando le
donne intente a raccogliere vongole sul fondale sabbioso.
Giambà, in quei giorni, andava al mare il mattino, poi, dopo un
pranzo veloce a casa, tornava ancora alla Marina, ad aspettare il
momento per stare con Maria, per godere dei suoi sorrisi che
magicamente si materializzavano sotto quei capelli neri e quel cielo
azzurro.
Aspettava, a volte parlando a quel giovane gabbiano col petto
bianchissimo ed il becco arancione che si posava poco lontano e che
lo guardava storcendo la testa. Aspettava e intanto si godeva il
sole, la brezza marina; si metteva prono sul pontile per guardare
nello stretto spazio tra un asse e l’altro: lo affascinava vedere
l’acqua, due metri sotto, in un surreale ambiente ombroso nel
quale si diffondeva la dolce e pigra melodia dallo sciabordio lieve
delle onde. Gli piaceva sentire il calore di quel legno scaldato dal
sole, il suo odore, e a volte anche il dolore di qualche piccola
scheggia che gli pungeva la pelle.
Quel giorno, come sempre, anche quando non aveva sete, aveva
allungato la strada di qualche metro per bere alla fontana di Via
della Pianta. Passando accanto alla casa del signor Cozzani era
rimasto colpito dall’intensità della musica proveniente da quelle
finestre spalancate. Non era una novità che quell’anziano e
distinto signore ascoltasse opere liriche a tutto volume col suo
grammofono, ma nella melodia di quel pomeriggio c’era una potenza
sconosciuta e struggente. Il signor Cozzani fu ben lieto di
soddisfare la sua curiosità: “E’ Puccini, ragazzo. La morte di
Mimì, il finale della Bohème. Non puoi ascoltarla senza piangere,
è un singhiozzare lacrime, la fine delle speranze, della
giovinezza, della vita. E’ la morte, ma senza aldilà. E’
Puccini...”. Giambà fu quasi scosso da quella musica, da quelle
parole. A 13 anni si può pensare alla morte, ed in quel modo?
Mentre si avvicinava alla Marina, già fantasticava di portare Maria
all’opera, di consolarla mentre piangeva di commozione, o, come
temeva, di piangere con lei. Avrebbero preso il tram per andare al
Monteverdi, dall’altra parte della città, lei in fondo meritava
di più che il solito film al Garibaldi. Non vedeva l’ora di
dirglielo, sicuro di sorprenderla, e l’ingenuo ottimismo dell’età
gli impediva di rendersi conto che il panciuto padre lo avrebbe
preso a sberle anche solo immaginando una tal cosa.
Attraversò Viale San Bartolomeo, scese al mare e, scrutando da
lontano l’angolo solitamente occupato dalla famiglia di Maria, notò
che i tre stavano terminando il pasto. La ragazza, nell’atto di
addentare una pera, lo scorse e gli sorrise. La cosa non sfuggì al
grosso padre che subito la redarguì, almeno a giudicare dal
repentino mutamento dell’espressione della giovane. Giambà si
contrariò, ma sapeva che presto il bestione avrebbe ceduto al
sonnellino del dopo pranzo, favorito dalle abbondanti libagioni di
vino rosso, e così, grazie alla tacita complicità della madre,
avrebbero potuto incontrarsi e parlare, almeno fino al risveglio
dell’orco. Ma quel giorno il vino, maledizione, tardava più del
solito a fare effetto e così dovette rassegnarsi ad aspettare
ancora: decise allora di prendere la piccola barca di suo zio e si
diresse verso i vivai, remando da in piedi con lo sguardo
all’orizzonte. Allontanatosi dall’approdo, si sentì chiamare da
una voce entusiasta. Maria, lontana, era momentaneamente sfuggita
agli occhi dei genitori e lo stava raggiungendo felice. Per essere
di Migliarina, non nuotava neanche male. Finalmente! Ecco, le
avrebbe raccontato della Bohème, del Monteverdi, le avrebbe detto
che gli piaceva stare con lei, che era simpatica, che era bella,
l’avrebbe… La perse un attimo di vista intento a girare la
barca, poi la cercò ancora con lo sguardo. Non c’era più.
Sparita. La scia bianca che aveva lasciato dietro di sé nuotando si
era richiusa. Per sempre. Si tuffò, chiamò il suo nome, andò
sott’acqua fino a farsi scoppiare i polmoni, si mise ad urlare, a
piangere, a picchiare il mare.
Avrebbe voluto che il cielo diventasse nero, che gridasse di tuoni,
pregò in lacrime l’oceano affinché almeno restituisse il corpo
di quell’angelo, ma non accadde nulla, solo un andare e venire di
figure umane, dapprima frenetico e urlante, poi sempre più mesto,
rassegnato e silenzioso.
Odiò
quel mare che aveva sempre amato, dal quale si sentiva tradito e
offeso; odiò quel cielo beffardamente terso e luminoso. Gli ci
vollero anni per comprendere che la natura non può essere amica, né
nemica, ma eternamente e desolatamente indifferente all’uomo.
Si
stava facendo male stringendo quell’anello, l’unica cosa di
Maria che il mare, seppur dopo tanti anni, aveva restituito. Intanto
il grosso e vecchio gabbiano era tornato sul suo palo, con le penne
sporche ed un po’ arruffate. Il Maestro Giambattista Finetti
asciugò una lacrima, infilò l’anello alla catenina che portava
al collo e s’incamminò verso casa. Doveva prepararsi per la sera,
quando, per la prima volta nella sua lunga carriera, avrebbe
finalmente diretto “La Bohème” dal podio del Teatro Civico,
nella sua città. Si fermò, inspirò profondamente l’aria che
sapeva di mare. La sua amata Città. Poi, poteva anche morire…
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