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I partecipanti ad un corso di informatica si possono
suddividere in due grandi categorie: quelli che lo fanno per pura
passione o curiosità e quelli che vi prendono parte per necessità
dettate dal mercato del lavoro. Il signor Remo fu un allievo che
sfuggiva a questa mia particolare catalogazione. La decisione di
farsi impartire alcune lezioni non era stata certo motivata dal
bisogno di un posto di lavoro, essendo ormai quasi ottantenne, né
in lui riconoscevo l’ardore della sete di conoscenza tipico degli
appassionati e dei curiosi. Pareva quasi che qualcuno, o qualcosa,
lo avesse costretto ad avvicinarsi al computer.
La
prima volta che mi recai a casa sua rimasi affascinato
dall’atmosfera particolare che si respirava in quell’ambiente.
Tutto sapeva di antico, a cominciare dal portone, affacciato su uno
stretto vicolo in pieno centro storico. Molte strade di questa zona
della città sono popolate quasi costantemente da turisti, intenti
ad ammirare i monumenti, a cercare ristoranti o a curiosare nelle
vetrine. Quel vicolo, invece, sembrava non interessare a nessuno:
nessun monumento, né osteria o pensione, né negozi. Solo pochi
portoni di legno scuro, piccoli ingressi di vecchie case che da
chissà quanto tempo nessuno aveva mai potuto o voluto riaggiustare.
Tra questi secolari usci, quello del mio anziano allievo. Per terra,
a destra dello scalino, la barra metallica orizzontale usata un
tempo per pulire le scarpe infangate. Oltrepassata quella soglia, un
atrio buio, con alcune biciclette arrugginite appoggiate in un
angolo ed una scala, stretta e ripida, diretta ai piani superiori.
In alto, una minuscola finestra permetteva ad un raggio di luce
fioca di entrare con discrezione. Non ricordo di aver notato nemmeno
una lampadina. Richiudendo il portone fui avvolto dal più assoluto
silenzio ed avvertii come la sensazione di avere compiuto un viaggio
a ritroso nel tempo.
Il
vecchio, venutomi ad aprire la porta del suo appartamento, mi guidò
attraverso un ampio salone ed uno stretto corridoio, e mi fece
accomodare in uno studiolo. Mentre lo seguivo, scambiando con lui
frasi di circostanza, ricevevo dall’arredamento le stesse
sensazioni di poco prima: vecchi mobili, vecchi soprammobili, vecchi
quadri, questi ultimi quasi tutti di soggetto equestre. Lo studio
era arredato con due piccole poltrone rivestite di un tessuto scuro,
un tavolino da salotto, un cassettone ed una massiccia scrivania,
sulla quale, quasi imbarazzante per la totale estraneità
all’ambiente, era un moderno personal computer. Ci sedemmo alla
scrivania ed iniziammo subito la lezione. Mi sorpresi
dell’attenzione con la quale il vecchio seguiva le mie
spiegazioni, e della pignoleria con la quale appuntava su un logoro
taccuino i concetti più importanti. C’incontrammo altre volte, e,
con piacere, apprezzavo i miglioramenti del mio allievo che,
nonostante qualche problema di memoria, cominciava ad utilizzare in
modo soddisfacente il suo computer. Mi piacevano i suoi modi
gentili, la compostezza, il modo di parlare, calmo e misurato, in un
italiano corretto impreziosito dall’accento toscano, con una forma
d’altri tempi. Raramente la nostra conversazione si liberava dai
vincoli degli argomenti tecnici, quando accadeva mi accennava spesso
a ricordi di guerra o alla sua passione per i cavalli ed io, per
quanto possibile, lo assecondavo, notando dietro le lenti dei suoi
occhiali ora un velo di commozione, ora un lampo di entusiasmo.
Stranamente non faceva mai cenno al presente, alla famiglia, ai
nipoti, argomenti sui quali sovente scivola la discussione degli
anziani. Pensavo non avesse figli, mentre sapevo dell’esistenza
della moglie per il fatto che un giorno mi fu presentata: nei suoi
occhi piccoli e scuri lessi un dolore che quasi mi fece paura. Era
sempre stata nell’appartamento durante le nostre lezioni, ma
nessun rumore aveva mai rivelato la sua presenza.
Tutte
le volte che uscivo da quella casa, scendendo le scale e camminando
per il vicolo, ancora immerso nel silenzio ed in quell’atmosfera
surreale, riflettevo sulla sensazione che pian piano si stava
formando in me: c’era qualcosa che non sapevo, qualcosa di strano,
o di terribile, che si percepiva tra quelle mura, ma che mai il
vecchio mi avrebbe rivelato, non per vergogna, ma piuttosto per una
forma di pudore. E, comunque, non era mio diritto saperlo.
L’ultimo
incontro avvenne in un pomeriggio piovoso. Il corso volgeva al
termine, il vecchio sapeva utilizzare autonomamente il suo potente
computer, era in grado di scrivere, di impostare calcoli, di
navigare in internet, di consultare CD-ROM multimediali. Squillò il
telefono, che aveva sempre taciuto. Il vecchio si alzò ed andò
nell’altra stanza a rispondere. Forse la moglie non c’era.
Rimasi per qualche minuto solo, nello studiolo. Silenzio, solo il
fruscio del computer e la pioggia contro i vetri, gli spessi muri
celavano la conversazione telefonica del mio anziano allievo. Una
fotografia, sul cassettone, attirò la mia attenzione. Mi avvicinai
per osservarla meglio: ritraeva un uomo di circa 40 anni, pallido e
con pochi capelli, intento a lavorare al computer. Avvertii una
presenza alle mie spalle e, voltandomi, mi accorsi che il vecchio
stava in piedi sulla porta della stanza. Non so perché, ma mi
sentii quasi colto in fallo, come se osservando quella foto avessi
violato una regola di comportamento vigente in quella casa. In
evidente imbarazzo, feci uno stupido sorriso e scivolai al mio posto
dietro alla scrivania. Il vecchio, dopo qualche istante in cui parve
come inebetito, si fece avanti, ma, anziché sedermi accanto, si
diresse verso il cassettone e prese in mano la fotografia come se
cercasse in essa la forza per riprendersi. Poi, voltandosi verso la
finestra imperlata dalle gocce di pioggia, iniziò a parlare.
Mezz’ora
più tardi, mentre per l’ultima volta richiudevo alle mie spalle
il pesante portone scuro, ebbi la sensazione di sigillare per
l’eternità una caverna satura di dolore, il dolore di due vecchi
che avevano perso il loro unico figlio e che, dopo la sua morte,
erano tornati nella loro vecchia casa. Un figlio da sempre malato,
da sempre solo, con l’unica compagnia di un computer e di tutto ciò
che con esso si può costruire o fingere di costruire. Ma in quella
caverna forse si era accesa una piccola fiamma: adesso era il
vecchio a sedere davanti a quel computer, a ritrovare in esso una
traccia, un sapore di quella vita tanto amata che non c’era più.
Camminavo
lentamente. Davanti a me, in fondo al vicolo, le luci dei negozi ed
una selva di ombrelli che si muoveva svelta. Solo allora mi accorsi
che stava ancora piovendo.
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