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Vestito
in maniera impeccabile, attendevo dietro le quinte. Un inserviente
mi fece un cenno col capo, capii che dovevo entrare. Al centro del
palcoscenico, per il resto vuoto, un pianoforte. In quell’istante
mi fu evidente che ero il pianista. Fui accolto con un applauso da
un pubblico che, nell’oscurità della platea, mi parve comunque
numeroso, e, dopo aver abbozzato un inchino di ringraziamento, mi
sedetti allo strumento. Ero completamente confuso e disperato. Io
ero un giardiniere comunale, cosa c’entravo con tutto questo?
Certo, amavo la musica classica, avevo sempre sognato di essere un
pianista, ma non avevo mai studiato musica, non ero in grado di
suonare alcuno strumento, né di leggere lo spartito. Cercavo di
prendere tempo aggiustando lo sgabello, ma non sapevo nemmeno quale
fosse la corretta posizione per suonare. Il pubblico intanto si era
zittito e si udivano pochi bisbigli che, col passare dei secondi,
aumentavano di volume. Evidentemente mi sarei dovuto cimentare in un
recital solista e, come vuole la prassi, non c’era nemmeno lo
spartito: anche se ci fosse stato, del resto, mi sarebbe stato
perfettamente inutile. Le mie orecchie raccolsero una frase di uno
spettatore delle prime file, il quale pronunciò il titolo di quello
che doveva essere il primo brano del concerto: era un brano che
conoscevo molto bene, avendolo ascoltato infinite volte. La cosa,
per un attimo, mi rassicurò, ma subito mi resi conto che non
risolveva in alcun modo la mia disperata impossibilità di suonare.
Guardavo quei tasti bianchi e neri, toccavo coi piedi i pedali e non
sapevo nemmeno lontanamente come trattarli. Poi, ubbidendo ad un
impulso irrazionale, iniziai a suonare, o meglio, iniziai a toccare
quei tasti, e la musica iniziò ad uscire… seguivo mentalmente la
melodia e magicamente le mie dita si muovevano nel modo corretto.
Ero eccitatissimo dalla gioia, ma dovevo stare concentrato sulla
musica. Riuscii a terminare il brano, felicissimo, anche se, a
giudicare dal modesto riscontro del pubblico, non dovevo aver
suonato così bene. Mi alzai a raccogliere l’applauso e, pensando
di essere il protagonista di un qualche miracolo, mi preparai per il
secondo brano, il titolo del quale di nuovo mi arrivò dalla platea.
Se tutto avesse funzionato come prima, avrei suonato ancora, dal
momento che anche questo mi era assai familiare. Iniziai, ma dopo
pochi secondi, improvvisamente, il miracolo cessò e mi ritrovai ad
annaspare sulla tastiera producendo suoni orribili e casuali. Il
pubblico si lasciò andare ad esclamazioni prima di sorpresa, poi di
totale incredulità. Sentii le forze abbandonarmi completamente, e
la testa girare in modo vorticoso. Mi alzai e, senza voltarmi, mi
rifugiai dietro le quinte dove farfugliai ai presenti di un malore
improvviso che mi aveva colto. Cercai in ogni modo di evitare
incontri con qualunque persona, e, mi dileguai dal teatro.
Il
giorno dopo, ancora affranto per la sconvolgente esperienza,
lavoravo ad una siepe dei giardini pubblici, quando una signora
anziana si fermò davanti a me e cominciò a chiedermi del concerto
della sera precedente. Dissi, scontroso, che non ero io il pianista,
che forse mi confondeva con qualcun altro, ma mi accorsi che non mi
credette. Per tutta la mattina passarono persone che si voltavano a
guardarmi e spesso, nei loro discorsi, intendevo la parola
“pianista” e coglievo uno sguardo obliquo che cercava la mia
persona.
La
seconda volta fu ancora più angosciante. Non ero solo, dietro alle
quinte. C’era anche un signore distinto, anche lui vestito
impeccabilmente, che mi rivolgeva sguardi ammirati ed amichevoli.
Tra le aperture dei teloni del retropalco avevo scorto, schierata
sul palcoscenico, un’orchestra completa. Quel signore doveva
dunque esserne il direttore, ed il suo sguardo ammirato era
probabilmente dovuto al fatto che mi accingevo a suonare un brano
molto impegnativo, uno dei concerti per pianoforte e orchestra più
difficili. Ne avevo infatti letto il titolo in un programma di sala
che mi capitò casualmente tra le mani: mi fece tra l’altro molta
impressione vedere il mio nome posto in grande evidenza. Stavolta
non ero nemmeno certo di conoscere la semplice melodia di quel lungo
concerto e, dopo l’esperienza precedente, ero terrorizzato di
dover comparire in scena. Il maestro, che evidentemente si aspettava
molto da me, continuava a guardarmi. Mi arrivavano frasi che
annunciavano in modo sommesso l’arrivo ora di questo, ora di
quell’importante personaggio cittadino, accrescendo la mia
agitazione. Ad un tratto, il silenzio calò sulla sala,
probabilmente avevano spento le luci e tutto era pronto per il
nostro ingresso. Io ero come impietrito, il maestro aspettava un mio
cenno di conferma, poi, forse fraintendendo un mio moto involontario
del viso, si diresse in scena. Non ebbi il coraggio di seguirlo, e
stavolta fuggii di corsa imboccando la prima uscita di sicurezza che
incontrai.
La
mattina dopo, sul lavoro, ottenni di farmi assegnare alla cura di un
giardino poco frequentato, ma quel giorno il flusso di persone che
vi passeggiavano era incessante, e tutti mi volgevano uno sguardo
commentando poi tra loro a bassa voce. Alla fine mi misi ad urlare:
“Che volete? Non ero io il pianista! Vi sbagliate, lasciatemi in
pace, maledetti!”. Un mio collega mi accompagnò in sede e fui
mandato a casa.
Purtroppo
quell’angosciante esperienza si ripeté ancora due volte. In
quelle occasioni fui protagonista di altrettante ignobili fughe
prima del concerto e, pur lavorando in luoghi sempre più appartati,
ero sempre oggetto della curiosità e dei pettegolezzi della gente.
Ma
da oggi, appena il treno sarà passato sulle mie mani che stringono
il binario, nessuno potrà più dire che sono un pianista.
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