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19
Luglio 2003
I tuoi occhi fissano ancora una volta il segno rosso sul calendario,
in corrispondenza del 20 luglio; poi il tuo sguardo si sposta
sull’orologio alla parete: mancano poco meno di ventiquattro ore.
Riemergono nitide, nella tua mente, quelle frasi eccitate
pronunciate da Chiara in un lontano mattino del ’53: “… Sì,
proprio qui, sotto questo albero, alla stessa ora… Tra 50 anni
esatti… Chissà come saremo, chissà quante cose avremo da
raccontarci… Ci pensi?”, e ancora, alzandosi in piedi per
l’entusiasmo generato dall’idea di quel pazzo appuntamento: “E
se saremo così cambiate da non riconoscerci?… Ah, ecco!
Indosseremo questi foulard azzurri… Tieni il tuo, mi raccomando,
non perderlo!”. Tu, seduta all’ombra degli alberi della
Maggiolina, la guardavi tranquilla, pensando che tutto ciò fosse
perfettamente inutile, che per due vere amiche come voi sarebbe
stato naturale continuare a frequentarsi ogni giorno, per sempre,
condividendo gioie e dolori quotidiani. E invece, adesso, devi
ammettere che aveva ragione lei: guardi una sua foto, di quando era
ragazza, e pensi che sono più di quarant’anni che non
v’incontrate, nemmeno per caso.
Il
foulard azzurro era finito al sicuro in cantina, nel baule, e lì
era rimasto per mezzo secolo, a far compagnia a quegli oggetti che,
inutili o insignificanti agli occhi degli altri, avevi voluto
conservare per allestire una specie di museo personale, col
proposito di ritrovare in esso, quando saresti stata grande, tante
intime testimonianze della tua gioventù.
Quelle cose erano rimaste, dimenticate, nel chiuso della cassa,
mentre gli anni e la vita passavano. A volte, in verità, era
capitato che ti fossi proposta di andarle a cercare, ma, come spesso
accade quando siamo di fronte ad azioni non indispensabili che
implicano comunque un pur minimo sforzo, non avevi mai concretizzato
quell’intenzione.
Adesso, ben contenta che qualcosa d’importante come
l’appuntamento del giorno dopo ti fornisca l’occasione
irrinunciabile per sollevare quel coperchio, scendi lentamente in
cantina, entri e richiudi la porta alle tue spalle. Vuoi essere
sola, perché solo tu potrai percepire il magico afflato che uscirà
da quel baule arrugginito, macchiato e impolverato. Con non poca
fatica lo trascini, armeggi con l’apertura, sollevi il coperchio:
in un istante rivivono immagini, odori, rumori, sensazioni che
dilagano nella tua mente in maniera disordinata… E’ come quando,
nel mezzo di un impetuoso temporale, si apre incautamente una
finestra, e subito si è investiti da un turbine di acqua e di vento
che ci bagna, ci sferza, ci gela.
Inizi
a mettere a fuoco gli oggetti, quelle semplici cose che hanno
attraversato, quasi immutate, il tempo della tua vita… ed i
ricordi fluiscono con più calma, lasciandoti modo di rivivere
appieno episodi della tua infanzia e della prima giovinezza.
La prima cosa che raccogli è il fazzoletto: era stato, infatti,
l’ultimo oggetto riposto nel baule, in quella mattina di luglio;
dopo, non sai neppure perché, non vi avevi aggiunto altro.
Poi, l’orologio a pendolo… lo sollevi, lo rimetti in funzione,
anche se sai che dopo dieci minuti si fermerà. …Suonano le sette,
c’è odore di fritto, sei a tavola con tutta la famiglia, tua
madre traffica con le pentole, tuo padre ti fissa sospettoso…
ancora una volta stai raccontando la trama del film in programma al
cinema Italia, sotto alla chiesa di Migliarina, l’unico
dove il babbo, seppur a malincuore, ti lasciava andare con le amiche
la domenica pomeriggio. Un film che non hai mai visto, perché tu
invece eri con Chiara al Nettuno, a ballare, a conoscere un amore
appena nato ma, ne eri certa, eterno… Inventi la storia, i
personaggi, le scene, e la mamma si commuove pure…
Ti ripassano così davanti agli occhi quelle sale cinematografiche
di periferia, con le sedie di legno e la gente che mangiava
rumorosamente durante la proiezione del film. Anche la mamma portava
sempre il panino con la frittata per te e per tuo fratello e, finito
lo spettacolo, seppur soddisfatta, faceva notare che il denaro speso
per i biglietti avrebbe invece potuto contribuire a rendere la cena
un po’ più abbondante.
Da bambina, per tutta la settimana aspettavi che arrivasse la
domenica sera, in famiglia tradizionalmente riservata al cinema:
quanto entusiasmo nel viaggio di andata! Che trepidante attesa
mentre eravate in fila per acquistare il biglietto! Eri felice, poco
importava se in programma c’era uno di quei melodrammi
strappalacrime prediletti dalla mamma (per la quale l’indice di
gradimento era proporzionale alla quantità di lacrime versate),
oppure un western (ovviamente con gli indiani cattivi) amato da papà.
Poi, si spegnevano le luci, le voci si abbassavano, qualche risata
di ragazzo veniva smorzata da un perentorio ed unanime invito al
silenzio, ma prima che iniziasse il film bisognava ancora aspettare:
c’era la pubblicità delle pellicole in arrivo, c’era il
cinegiornale; qualunque cosa venisse proiettata era comunque
accettata di buon grado, in quegli anni che precedevano l’avvento
della televisione.
Tra i cinema che frequentavi c’era, appunto, l’Italia,
così piccolo che era chiamato “Pidocchietto”, dove al
pomeriggio venivano proiettati due film di seguito; l’Augustus,
in Via Mozzachiodi, con adiacente un’arena estiva; il Volta,
vicino alla stazione di Migliarina, che gli anziani chiamavano
ancora “Danese”: in quella sala il babbo, anni prima, era
rimasto affascinato dalla splendida voce del baritono Emilio Bione,
che vi aveva tenuto un concerto; il Garibaldi, al Canaletto,
che subì anche un bombardamento. A volte si arrivava fino al
Limone, al Vittoria. Negli anni ‘60, in alcune di quelle
sale, dotate di televisori, la gente si radunava per assistere a
“Lascia o raddoppia”.
Continui
ad esplorare il contenuto del baule. Dentro ad una piccola scatola
c’è la sabbia raccolta in un pomeriggio di luglio ai Bagni
Municipali: ti sentivi quasi in colpa per averla sottratta per
sempre alle carezze del mare. Adesso fai scorrere tra le dita quelle
poche migliaia di granelli, attenta a non perderne nemmeno uno: è
tutto quello che resta delle spiagge della tua città. Il ricordo di
quelle giornate al mare ti illumina, e rivivi le emozionanti
sensazioni provate percorrendo allegramente i sentieri che
attraversavano i campi della Pianta e di Fossamastra, con le soste
alla fontana di Via della Pianta ed alla vasca nel giardino della
Celi, in via Maralunga, dove i bambini più piccoli si fermavano
incantati ad osservare i pesci.
Le fontane non hai potuto metterle nel baule, ed ogni volta che ne
veniva rimossa una provavi sempre un’immensa tristezza: c’era
quella di Corso Nazionale, davanti alla clinica Alma Mater; quella
di Marcantone, all’inizio di Via De Nobili; una era sul ponte
sulla Dorgia, poco dopo la chiesa di Migliarina; un’altra in Via
del Canaletto. Per fortuna, alcune sono ancora al loro posto, ad
offrire l’ottima acqua spezzina a chi ancora sa gustare il piacere
semplice ed antico di bere ad una fontana.
Frugando
ancora, trovi un nocciolo di pesca, un frutto assaporato all’ombra
di un albero, in uno di quei giorni in cui la splendida natura
intorno e la tua serenità ti sembravano eterne. Erano i campi di
Bertagna: le stalle ed i frutteti, dove tuo fratello si arrampicava
sugli alberi per rubare le ciliegie; le viole nei fossi con
l’acqua limpida, dove il tuo vicino di casa, la sera, andava a
caccia di rane armato di un ombrello bucato che fungeva da retino;
e, in mezzo, la Dorgia, che un inverno straripò allagando le
cantine.
Trovi, testimoni di un’antica passione di famiglia, vecchi
libretti d’opera, storie che in parte placavano la tua voglia di
leggere; prendi in mano “Rigoletto” e risenti lo zio Salvatore,
ancora una volta ubriaco, che dalla strada canta “La donna è
mobile”, con la mamma che muore di vergogna.
Trovi una castagna, raccolta in una di quelle domeniche nelle quali
si partiva al mattino, con amici e parenti, per andare a piedi nei
boschi sopra Isola.
Ne trovi un’altra, che sembra uguale alla prima, ma non lo è.
E’ più vecchia, è di quelle che mangiavi in quei giorni in cui
sulla Spezia cadevano le bombe e si cercava rifugio nelle campagne,
dormendo nelle stalle: ricordi che la mamma non voleva saperne di
abbandonare la casa, ma una notte di bombe devastanti l’aveva
indotta a cambiare idea. Di quei momenti di terrore, nel rifugio
antiaereo che altro non era che un angusto vano sotterraneo al quale
si accedeva tramite un tombino, ricordi solo il buio e le urla
disperate delle altre persone che lo affollavano. A pochi metri da lì,
nel bellissimo parco che la circondava e dove tu eri solita andare a
giocare attraversando la Dorgia, Villa Ferrazzi si sgretolava in un
ammasso di macerie.
Poi
la mano, obbedendo ad un istinto violento, corre frenetica verso il
fondo, verso le cose più vecchie, quelle che raccogliesti quando
avevi nove o dieci anni. Sai bene cosa stai cercando… eccolo! Lo
afferri e lo estrai con impazienza. La copertina è ingiallita, ma
si legge ancora “Delitto e castigo”, stampato con quei caratteri
solenni che si usavano una volta. Tocchi la spessa carta, lo apri,
lo porti al naso, ne assapori quell’odore piacevole che hanno
certi libri, quell’odore che, non meno della storia, del peso, del
colore della copertina, li identifica. Rivedi tuo padre,
accanto a te, seduto sul letto, che legge quelle pagine con voce
profonda, rassicurante, quella voce che, nonostante i suoi
protettivi sforzi per non turbarti, tradisce la stanchezza di una
pesante giornata di lavoro e le preoccupazioni di quei tempi bui.
Per molto tempo sarebbero rimaste le più belle sere della tua vita.
Cominci a leggere, e, mentre lo fai, rivivi, assieme alle tormentate
vicende di Raskol’nikov, quei magici momenti che precedevano il
sonno. Continui a leggere, rapita, non rendendoti conto del
trascorrere del tempo, fino a che arrivi ad aprire pagina 35. Qui ti
devi fermare, perché trovi qualcosa che ti commuove in modo quasi
insopportabile, e le lacrime ti annebbiano la vista: prendi fra le
dita quel capello nero, che per più di mezzo secolo è rimasto lì,
integro, protetto dalle pagine immortali di un libro, mentre il
corpo cui era appartenuto viveva, soffriva, moriva.
20
Luglio 2003
Adesso alla Maggiolina c’è un parco: i tre grossi alberi sotto ai
quali vi scambiaste la promessa di questo lontano incontro sono
sempre al loro posto, anche se attorno ad essi tutto è cambiato.
Ti siedi su una panchina, vicino al punto dove, negli anni settanta,
c’era ancora il pavimento della vecchia pista da ballo smantellata
tanti anni prima. Quel pavimento che, così bizzarro in mezzo
all’erba ed agli alberi, spingeva tuo figlio a domandarti cosa
fosse e tu, di buon grado, ricordavi le feste, i balli, i gelati
delle serate estive.
E’ domenica mattina, le automobili che passano da Viale Italia non
fanno neanche troppo rumore: se ti concentri sul canto degli
uccelli, non le senti nemmeno. Qualche metro più in là, alcuni
anziani seduti su una panchina parlano con altri, che stanno in
piedi: sono vestiti in modo elegante, uno tiene in mano un pacco
della pasticceria. Una giovane mamma porge il viso al sole, senza
perdere di vista il bambino che gioca nell’erba. Un signore di
mezza età legge assorto il giornale, ed ogni tanto si aggiusta gli
occhiali da presbite, mentre un piccione ispeziona il territorio ai
suoi piedi. Scorci di serenità, si direbbe, ma quella che provi è
inquietudine, malinconia, senso di solitudine, anche se sai che al
mondo ci sono ancora persone che ti vogliono profondamente bene.
Spingi la testa all’indietro, per guardare il cielo, o forse per
ricacciare negli occhi una lacrima… guardi le cime degli alberi
stagliarsi sul cielo terso, perdendoti in quella che è la sola
immagine rimasta identica a quando eri bambina. Poi, un rumore di
passi ti scuote. Davanti a te, una figura femminile, esile,
giovane… Avrà sì e no 14 anni… Un foulard azzurro al collo.
Emozionata, la riconosci: è lei, è Chiara… com’è possibile?
Forse ti sei addormentata e stai sognando o forse è la tua vita che
è stato un sogno, forse il tempo non è passato, anche tu sei
ancora una ragazzina… Non riesci a staccare gli occhi da lei, da
quell’apparizione dolcissima che ti guarda, che ti sorride, che ti
ha riconosciuto… che soavemente ti parla:
“Tu sei Anna?… Ciao, la nonna mi ha pregato di venire… Ci
teneva tanto a salutarti, all’ultimo non parlava che di te… Non
ce l’ha fatta, per pochi giorni non ce l’ha fatta. Ci sta
vedendo, di lassù…”, e la sua piccola mano indica il cielo
azzurro, accarezzato dalle foglie verdi degli alberi…
Infatti,
Chiara è arrivata qui, con me, nello spazio dei ricordi o, forse,
dell’immortalità, dove gli affetti e gli amori eterni, come il
nostro, si ritrovano, e non si perdono mai più.
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