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Voltato
l’angolo del capannone riservato ai mezzi fuori uso, il vecchio
filobus apparve davanti a Carlo. Anche quel giorno, si fermò ad
osservarlo e, immaginando il suo passato d’instancabile servitore,
legato per decenni alla città fino a diventarne parte stessa del
paesaggio, pensò al dramma di un maggiordomo relegato a finire i
suoi giorni in un ospizio, fino allora indispensabile, ma ormai
tragicamente inutile.
La
carrozzeria era colorata di un brutto verde opaco, a tratti
arrugginita e graffiata. Sul muso, due fari rotondi, il grigio
stemma del produttore, più in alto il parabrezza con due
tergicristalli simili a rami seccati senza speranza e, ancora più
su, la finestrella destinata a riportare il cartello relativo al
percorso: tutto essenziale e privo di qualunque concessione
all’estetica. Eppure, chissà quante volte l’apparire
lento di quel muso in una sera invernale aveva innescato una di
quelle piccole gioie che ci riscaldano un attimo e non si ricordano
mai.
Carlo
salì attraverso la porta posteriore, lasciata aperta da chi, mesi
prima, collocò il filobus in quel piazzale, in attesa del restauro
che lo avrebbe reso degno di comparire nel Museo dei Trasporti
cittadino.
Si
trovò subito davanti agli occhi il posto dove un tempo sedeva il
bigliettaio e, voltandosi a destra, il suo sguardo spaziò su tutto
l’interno fino all’estremità anteriore. I sedili dei passeggeri
erano di legno, verniciati di un marrone scuro che spesso aveva
ceduto all’arrogante violenza di oggetti appuntiti, usati per
lasciare scritte di vario tipo. In alto, alcune targhette metalliche
invitavano i passeggeri a non fumare e a non sputare, come se, in
passato, le più elementari norme di buona educazione non fossero
cosa ovvia. Fissati ai pali di sostegno c’erano i pulsanti per
prenotare la fermata e, tra il soffitto ed i finestrini dal vetro
sudicio, spartani cartelli colorati invitavano ad iscriversi ad una
scuola privata ed ad arredare la propria cucina con certi
meravigliosi mobili. Il posto di guida era protetto da una lastra di
vetro e da una sbarra metallica: la povera e grossolana
strumentazione tradiva più d’ogni altra cosa l’età del mezzo.
Quante
persone avevano occupato quei posti, avevano afferrato quei sostegni
ed osservato attraverso i finestrini lo scorrere del solito
paesaggio famigliare! Persone provenienti da una grande gioia, con
la voglia di portarla a casa più velocemente possibile; persone
appena colpite da un violento dolore, assalite dai ricordi e
spaventate dal futuro. Ogni sedia avrebbe potuto raccontare migliaia
di fatti gioiosi, tragici, banali: storie e, quindi, la storia.
Carlo
percorse ripetutamente, avanti e indietro, quei dieci metri dalla
piattaforma posteriore al posto di guida, soffermandosi ogni volta
ad osservare un particolare diverso. In questo modo, gli sembrava di
rivivere per un attimo i momenti di tanti sconosciuti che erano
passati da lì.
La
sua attenzione fu presto catturata da una data dietro allo schienale
di un sedile: 14/05/97, inciso probabilmente con un temperino o una
chiave dal passeggero seduto al posto collocato dietro.
Gli
parve strano che quella data, nel momento in cui fu scritta, almeno
vent’anni prima, appartenesse ad un futuro molto lontano: insomma
non poteva certo essere stata incisa per ricordare un giorno che per
qualcuno era stato particolarmente significativo.
In
ogni caso, Carlo sentiva che in quel giorno sarebbe accaduto
qualcosa di importante, qualcosa che doveva in qualche modo essere
in relazione col suo filobus preferito.
La
mattina del 14 maggio 1997 Carlo si alzò presto e con addosso il
nervosismo di un giorno atteso da tempo. Dopo una veloce colazione,
si diresse a passo svelto all’appuntamento che sentiva di avere
con il vecchio filobus. Era ben conscio che in tutto ciò non ci
fosse nulla di razionale, ma per niente al mondo avrebbe rinunciato
a ciò che stava facendo.
Alle
nove e dieci salì i tre gradini della porta posteriore.
“Buongiorno,
Carlo” gli disse l’uomo seduto al posto del bigliettaio: era un
signore elegante di circa settanta anni, con pochi capelli bianchi
perfettamente pettinati e due occhi che non si staccavano un attimo
dai suoi.
“Vedo
che non ha voluto mancare all’appuntamento: mi compiaccio con
lei”. Parlava abbastanza lentamente, scandendo le parole in modo
chiaro.
“Ma
lei chi è ?” fu l’ovvia domanda di Carlo, che restò però
senza risposta.
“Lei
deve sapere che, esattamente ventiquattro anni fa, questo filobus
svolgeva il suo servizio per l’ultima volta: la rete filoviaria di
Genova, infatti, sarebbe stata temporaneamente dismessa circa un
mese dopo”.
Continuando
a fissarlo, come se volesse cogliere in lui ogni minima reazione
emotiva, aggiunse: “Io so che lei spesso viene qui e si trattiene
a lungo immaginando le sensazioni di persone appartenenti al
passato. Io voglio permetterle di fare ancora di più. Scelga un
posto e si sieda: proverà esattamente le stesse sensazioni di colui
che vi era seduto trent’anni fa a quest’ora esatta”.
Carlo
era stupefatto: in un’altra situazione non avrebbe mai creduto a
sciocchezze del genere, ma in quel momento era profondamente
convinto che quell’uomo misterioso dicesse il vero. Era così
ansioso di provare che non rispose. Si guardò attorno dapprima
indeciso, poi si diresse al posto del conducente e lì si sedette.
La
sua mente, rapita da una forza arcana, iniziò a materializzare le
immagini che l’autista aveva visto trent’anni prima e ad
identificarsi progressivamente in lui.
…C’era
traffico in città. La pioggia, che cadeva martellante da ore,
contribuiva ad alimentare la confusione nelle vie del centro. Come
al solito, in simili circostanze, il giornale del mattino costituiva
un pratico rimedio contro l’appannamento dei vetri. Finalmente,
con sollievo, svoltò in un viale che lo avrebbe portato verso la
periferia. Ora il traffico era più leggero ed il suo cervello,
contrariamente a poco prima, riusciva anche ad elaborare le frasi
che, da dietro, gli giungevano alle orecchie: la gente si lamentava
della pioggia, qualcuno chiedeva permesso, avvicinandosi alla porta
di uscita. Avvertì il profumo del pane ancora caldo e l’odore di
qualche verdura. I tergicristalli intanto scandivano il tempo come
un bizzarro orologio a pendolo.
Avvenne
tutto in una frazione di secondo: il bambino comparve
all’improvviso, sbucando da dietro uno degli alberi che
fiancheggiavano il viale. Il piede pigiò con forza sul pedale del
freno, mentre, rispondendo ad un riflesso automatico, le braccia
ruotavano il grosso volante verso sinistra. Sentì alle sue spalle
la gente che urlava finendo a terra, il rumore delle aste
scarrucolate e, avvertendo un piccolo ostacolo sotto alla ruota
anteriore destra, realizzò con orrore di essere passato sopra al
corpo del bambino. Nello stesso istante, mentre il filobus arrestava
la sua corsa dalla parte opposta della strada, un dolore severo e
inesorabile lo assalì al centro del petto e gli troncò il respiro.
***
Carlo
si ritrovò riverso sul volante: davanti a se, solo il piazzale
desolato del deposito. Nessuna voce, nessun odore, nessun rumore di
pioggia. Ebbe il tempo, mentre il sudore lo avvolgeva ed il suo
petto sembrava spezzarsi, di ricordare quella piovosa mattina di
maggio in cui, in gita con la scuola a Genova, sfuggì alla maestra
e si gettò in mezzo alla strada rincorrendo un gattino che
attraversava il viale. Rivide quelle persone che, dai finestrini del
filobus, gridavano spaventate chiedendo soccorso per l’autista
morente, mentre la sua attenzione era tutta per l’animale che,
immobile e fradicio, colorava di rosso l’acqua di una pozzanghera.
***
“Ma
davvero ieri hanno trovato un giovane morto su un filobus di quelli
vecchi?” domandò una vecchietta con una forte inflessione
dialettale, ignorando il “vietato parlare al conducente”;
“Era
accasciato al posto di guida. Dicono un infarto. Chissà cosa
cercava là dentro…”
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